Libri su Giovanni Papini

2022


a cura di Lelio La Porta e Francesco Marola

L’Europa di Gramsci
Filosofia, letteratura e traducibilità



Mimmo Cangiano
Gramsci e il “filtro” europeo dei vociano-lacerbiani: ruolo dell’intellettuale, oggettività, pragmatismo, empiriocriticismo, proudhonismo, pp. 117-138
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I

In questo articolo cercherò di chiarire il ruolo di mediazione giocato, per Gramsci, dall’ambiente delle riviste fiorentine rispetto alla ricezione italiana della cultura europea. L’interpretazione vociano-lacerbiana di numerosi gangli culturali primo-novecenteschi (pragmatismo, empiriocriticismo, sorelismo, ecc.) servirà infatti al Gramsci del carcere tanto per chiarire la propria posizione su tali fondamentali snodi di riflessione politico-culturale, quanto per distanziarsi dall’interpretazione di questi proposte da alcune delle punte più avanzate della cultura borghese.
   Tre sono le principali linee di indagine. La prima è naturalmente quella concernente la questione dell’intellettuale al divergente incrocio fra brescianesimo e cultura nazionale-popolare, dove ad esempio Papini (un tempo «uomo meraviglioso» e ora «antico monello che rompe i vetri per conto dei vetrai» 1) diventa bersaglio polemico privilegiato col suo cattolicesimo in vestito da clown.
   La seconda linea, ben più determinante, concerne il giudizio gramsciano sulla cultura bergsoniano-pragmatista-empiriocriticista, veicolata inizialmente in Italia proprio dal duo Papini-Prezzolini (lo stesso Papini cura nel 1910 la prima traduzione italiana


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di scritti bergsoniani per La cultura dell’anima). In questo senso le riflessioni del Gramsci maturo, come vedremo, si soffermano su convergenze e divergenze fra il materialismo storico e le nuove filosofie (europee e americane) a matrice relativista incentrate sul primato della coscienza soggettiva.
   La terza linea di riflessione, infine, è quella che si appunta sul “moralismo vociano” di sinistra (Piero Jahier), di cui Gramsci ri- costruisce la genealogia che, fra Proudhon e Sorel, conduce, a suo giudizio, esattamente come nel caso di Papini, alla cultura di Stra- paese 2.
   Cominciamo proprio da Papini e dai soli due elementi positivi che, nei Quaderni, Gramsci riscontra nella sua opera. Il suo antico lavoro del 1906, La coltura italiana, gli vale ancora un certo interesse, in quanto simboleggia per Gramsci una parziale uscita dell’intellettuale del secondo-strato (quello impegnato nel compito di educazione di altri intellettuali) dalla sfera della pura cultura umanistica. Gramsci non può sapere che il volume, il primo annuncio delle future modalità d’azione de «La Voce», è in realtà al 90% opera di Prezzolini (a cui Papini scrive «Non mi pare che questo possa essere per noi un libro decisivo» 3) . L’altro elemento positivamente citato è un articolo in difesa di Carolina Invernizio e della letteratura popolare (uscito su «Il Resto del Carlino» del 4 dicembre 1916), e anche in questo caso Gramsci non può sapere, come invece noi apprendiamo da una lettera di Papini a Soffici, che si trattava di uno scherzo (nella lettera Papini si lamenta infatti dell’incapacità dell’intellighenzia italiana di cogliere gli aspetti faceti del suo scritto 4) . Più in generale, attraverso l’involuzione cattolico-fascista di Papini (e quella fascista-classicista di Soffici), Gramsci interpreta «Lacerba», a posteriori, nella linea, già inaugurata da Alfredo Oriani, tesa ad attribuire funzione eversiva all’elemento popolare in chiave anti-proletaria.


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Ben più complesso è, naturalmente, il giudizio su Prezzolini: «movimento della “Voce” di Prezzolini, che aveva certamente uno spiccato carattere di campagna per un rinnovamento morale e intellettuale della vita italiana» 5. Per comprendere però qui il giudizio di Gramsci, dobbiamo un attimo soffermarci sul progetto vociano.
   Con la lettera circolare del maggio 1908, Prezzolini puntualizza due dei principi cardine della rivista da farsi: ogni posizione, culturale come politica, sarà ammessa nella rivista, a patto che questa sia «suscettibile di difesa razionale» 6, , non sia cioè fondata su basi arbitrarie di gusto; gli articoli saranno finalizzati ad una riforma della cultura nazionale e saranno tesi ad agire sul pubblico. Con l’editoriale del secondo numero (La nostra promessa), il Direttore aveva accennato alla necessità di un’azione diretta della cultura finalizzata tanto a mappare la condizione intellettuale della provincia italiana, quanto ad essere pungolo di una riforma culturale (e dunque morale) delle istituzioni politico-pedagogiche (Università, biblioteche, ecc.). Azione trasversale rispetto ai partiti politici, intervento su questioni pragmatiche che miri alla formazione di una coscienza critica a livello nazionale. Inevitabile corollario sarà poi l’invito costante all’abbandono della letteratura a favore dell’analisi concreta, la sola che possa garantire una riformulazione dell’intellettuale come “tecnico” e dunque un suo reinserimento, per questa via, all’interno dell’azione legislativa del Paese (in accordo con la visione di Croce della “vita pratica” come partecipe della vita dello Spirito medesimo).
   Tale operazione richiede naturalmente un modello nuovo di intellettuale; un intellettuale la cui opera educativa deve anzitutto fortificarsi mediante l’acquisizione di una serie di cognizioni tecniche che garantiscano all’intellettuale medesimo il diritto a trattare quelle questioni ritenute determinanti per la vita del Paese: «determinare un movimento d’opinione che provochi un mutamento» 7. Si


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tratta al contempo, è ancora un presupposto crociano, di rendere “concreto” il fatto intellettuale e di rendere “morale” il fatto empirico, inquadrandolo in un propositivo educativo che, elevando il cittadino, elevi l’insieme nazionale. Tale elemento “morale” concernente l’analisi dei motivi politici, permette ai vociani, da un lato, di presentare la loro ricognizione come superiore a quella (empirica) dei giornalisti e dei politici di mestieri, e dall’altro li conduce inevitabilmente a caratterizzarsi come spazio di un’aggregazione super partes (che orienta il proprio ruolo presentando l’intellighenzia come viatico alla ricomposizione delle fratture politiche e, implicitamente, come autorità superiore alla politica medesima, appunto perché non compromessa con interessi di parte).
   Già da queste poche note è facile comprendere l’interesse che il giovane Gramsci aveva mostrato (lui abbonato) per la rivista. L’abbandono del modello prettamente umanistico dell’intellettuale (ancora dominante in Papini e Soffici) a favore dello sviluppo di cognizioni tecniche, unito all’interesse per una ricaduta effettiva della produzione culturale sulla popolazione, erano sicuramente dei punti a favore della «Voce». D’altro canto la prospettiva super partes, il ruolo pedagogico ma ancora direttivo e non dialettico, l’azione finalizzata a investire solo una porzione estremamente ridotta (e a matrice intellettuale) della popolazione erano certo punti a sfavore. Ma a pesare davvero, dal carcere («Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d’allora» 8) , è certo l’ambiguo rapporto che molti vociani (a cominciare proprio dal Direttore)ebbero col fascismo nascente.
   Mussolini già nel 1909 aveva inviato un articolo (non pubblicato) a Prezzolini, e nello stesso anno aveva presentato la rivista su «Vita trentina» in termini assolutamente elogiativi 9. «La Voce» aveva avuto per Mussolini, come noto, un ruolo decisivo come modello di formazione intellettuale e per la precisazione del suo pensiero in senso idealista e volontarista. «La Voce» aveva sempre guardato con una certa simpatia all’ala rivoluzionaria del Partito Socialista, e Prezzolini aveva salutato con calore la nascita, alla fine del ’13, della mussoliniana


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«Utopia», intravedendo nella pubblicazione quell’interpretazione del marxismo in senso etico che, incentrandosi sull’idea di un rinnovamento morale del paese, poteva essere contato fra gli alleati dell’indirizzo idealistico proposto da «La Voce».
   Tale prospettiva viene poi ripresa da Prezzolini, durante la battaglia per l’interventismo, in due articoli (Partiti e gruppi italiani davanti alla guerra e I socialisti non sono neutrali) tesi a incoraggiare Mussolini al passaggio al campo favorevole all’intervento militare:

Quando vi abbiamo veduto, caro Mussolini, andare d’accordo con Filippo Turati, un amico nostro e buon toscano, ci ha ricordato una scena del Manzoni. Quella di Renzo che entra all’osteria con “Ambrogio Fusella” [...] una spia [...]. Che la vostra anima di guerriero venga fuori, intera 10.

Il 15 novembre – incassata la collaborazione di molti vociani – Mussolini lancia «Il Popolo d’Italia». Prezzolini saluta il nuovo giornale su «La Voce», lascia la direzione e si trasferisce a Roma come corrispondente politico del «Popolo»: «parola d’ordine, con Mussolini. Vorrei che tanti amici della “Voce” [...] lavorassero con lui» 11.
   Allo stesso modo, negli articoli degli anni Venti (in particolare il famoso Per una società degli Apoti), Prezzolini (che si dichiara liberale e a-fascista) si inserisce ancora, per Gramsci, nella consueta volontà di non spezzare il blocco degli intellettuali nei rivoli delle scelte di campo politiche. Il “noi” che emerge dagli scritti del 1922-1923 vuole così porsi come forma estrema di difesa corporativa rivestita da attitudine ad una più corretta comprensione storica degli eventi: «Il dilemma è chiaro: o rinunciare a capire, o rinunciare alla politica [...]. Il nostro compito è rimaner pochi, fra pochi, con pochi» 12.


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   Progressivamente esautorato dalla vita nazionale, Prezzolini decide allora di dedicarsi ad un lavoro monografico su Machiavelli che è riconsiderazione della propria vicenda intellettuale.
   Prezzolini tratteggia in Machiavelli la figura idealizzata del vociano; immanentista ma in cerca di un principio ordinatore del reale, avverso alla retorica letteraria, realista e concentrato alla soluzione di problemi tecnici:

è simbolicamente provvidenziale che questo Italiano, che primo pensò davvero all’Italia, fosse un uomo di burocrazia, conoscesse il valore di un registro, [...] spediva ordini, mandava denari, chiamava uomini alle armi [...], comprava carichi di salnitro [...]. E mi piace così anche per confusione di quei letterati, di cui son pieni i caffè, che sdegnerebbero condurre un dì soltanto la vita che Niccolò fece per anni 13.

Ma, mentre avanza il ritratto, i tratti del “profeta disarmato” avvolgono mano a mano lo stesso Machiavelli:

Niccolò aveva ormai capito che l’uomo d’ingegno non può avere altra compagnia che quella d’altri uomini d’ingegno, sopra i partiti e le necessità pratiche. [...] Come molti veri intellettuali egli riusciva ostico ai partiti 14.

Consequenziale compare a questo punto nel volume la figura di Guicciardini:

Senti nel Machiavelli la giovinezza che sogna, nel Guicciardini la vecchiaia che ha rinunziato e che [...] guarda con pietà e con distacco le cose del mondo. Il Machiavelli è nel fondo un apostolo, rinnegato dagli uomini del suo tempo; il Guicciardini è un asceta, che ha rinnegato gli uomini 15.


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Prezzolini a questo punto fa cioè di Guicciardini la metafora dell’autonomia intellettuale come spazio di resistenza.
   Ora, come noto, Guicciardini appare nei Quaderni un numero limitato di volte (quasi sempre in diade con Machiavelli), eppure, proprio in contrapposizione all’autore de Il Principe, Guicciardini assume un peso non indifferente nel pensiero gramsciano, perché funziona da modello di una tipologia di intellettuale tesa ad escludere la sfera della prassi proprio in nome di una più oggettiva lettura del reale:

la volontà di non “impegnarsi” a fondo, che è il modo di badare solo al proprio “particulare” del moderno guicciardinismo di molti intellettuali per i quali pare che basti il “dire”: “Dixi, et salvavi animam meam” 16.

Guicciardini è l’uomo di Stato che opera nell’ambito della «realtà effettuale», che non si interessa al “dover essere”, dove invece Machiavelli «è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del “dover essere”» 17. Machiavelli, come Guicciardini, è un uomo che si muove sul terreno della realtà effettiva, ma che applica «la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva» 18, e porta dunque l’atto critico all’interno di una dimensione di tipo politico, perché ogni scelta e ogni critica hanno sempre come base una volontà razionale «che si realizza in quanto corrisponde a necessità obbiettive storiche» 19. Lo scetticismo di Guicciardini (quello che nel sistema di pensiero gramsciano si identifica come assenza di «passione», e che dunque preclude la «fase-Riforma», la fase di andata-al-popolo delle idee), anche quando dettato da precisi intenti di obiettività, non può che svelarsi come atteggiamento di classe: «in realtà “l’uomo del Guicciardini” è il rappresentante


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ideale del “moderato italiano”» 20. In lui il concetto di critica non riesce ad assurgere a una funzione positiva: la critica che si fonda sull’assenza di un modello di politica progressiva verso cui schierarsi conduce invece, per contrasto, ad una Realpolitik che, disconoscendo il dover-essere, porta alla mera cura del dato immediato. Ecco perché Prezzolini, il cui “Guicciardini” è difesa di un’autonomia intellettuale nel quadro di una presunta oggetttiva lettura degli eventi, non potrà più, all’altezza dei Quaderni, essere un interlocutore. Inoltre l’approdo ‘guicciardiniano’, col tramite dell’apotismo, dell’antico direttore de «La Voce», finisce per generare una nuova interpretazione anche rispetto allo stesso progetto vociano, il cui tentativo di mantenere in vita un certo, privilegiato, separatismo della cultura rispetto all’azione politica si colora secondo Gramsci, a posteriori, dei medesimi tratti propri alla “separatezza” intellettuale guicciardiniana.

II

La seconda linea a cui voglio fare riferimento è quella che concerne il rapporto di Gramsci con pragmatismo ed empiriocriticismo così come veicolato dalle riviste fiorentine e, in primo luogo, proprio dal Prezzolini pre-vociano.
   In un autografo del 1903 intitolato Piani di conoscenza, Prezzolini – che ha seguito i corsi di Bergson in Francia e ha avuto la possibilità di leggere autori come Mach e Poincaré – chiarisce il modo in cui intende la nuova gnoseologia:

dalla verità assoluta ed unica, siamo passati alle verità di nostra costruzione, multiple e passeggere. [...] Se dati dei postulati e accettate delle regole, si ottengono verità, le verità raggiunte partendo da certi postulati e seguendo certe regole saranno false secondo altri postulati ed altre regole. Questa è l’idea fondamentale dei piani di conoscenza 21.


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Siamo all’interno di una prospettiva epistemologica tesa a sovrapporre le prospettive pragmatiste di William James e di Ferdinand Canning Scott Schiller al convenzionalismo di autori come, fra gli altri, lo stesso Mach e François Le Roy. Il punto di vista conoscitivo (a sua volta dettato dal momento psicologico di chi esprime tale punto di vista) ha una validità che è di tipo esclusivamente utilitario/pragmatista: «vero, non già nel profondo dell’anima; vero, [...] se lo si vuole come un postulato necessario per una data costruzione» 22. L’unico punto di vista che risulta sottratto a tale riduzione è proprio quello che si allarga a comprendere la natura utilitario-finzionale dei punti di vista medesimi, e che Prezzolini pone subito sotto l’egida della razionalità sofistica e riconduce, in senso moderno, a pensatori quali Stirner e Nietzsche:

Il Sofista non è un filosofo; è un uomo corazzato di tutte le filosofie. [...] Egli sa che il loro valore assoluto non esiste. [...] Stirner [...] Nietzsche [...] che del pensiero Sofistico furono largamente nutriti 23.

D’altro canto, la separazione fra chi è in grado di comprendere la natura puramente utilitaria dei punti di vista e chi non le comprende viene immediatamente ricondotta ad una prospettiva filosofico-politica che riduce tanto il materialismo quanto il positivismo (e dunque il socialismo suo alleato) a “piano di conoscenza” buono per le masse e per l’uomo massificato, ma non per certo per l’intellettuale:

dobbiamo riconoscere che la loro teoria è vera se non per noi, per le masse. A questa stregua è vero il determinismo, bello il materialismo storico, giusta la morale comune, utili le leggi, necessaria la religione; con questo criterio infine il socialismo appare l’idea serraglio della bestialità umana 24.


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Sviluppo di una nuova gnoseologia di tipo para-nietzschiano, critica del materialismo storico e inviti alla riscossa borghese in senso nazionalistico, non vanno insieme perché tutti parte di una qualche attardata forma di misticismo ultramondano: vanno insieme perché tutti parte della nuova prospettiva epistemologica. Nello stesso 1903 Prezzolini fa il suo ingresso su «La Critica» crociana con la recensione al saggio di Henri Poincaré La science et l’hypothèse, dove ribadisce l’arbitrarietà degli assiomi di partenza nella costruzione delle leggi scientifiche; pubblica il volume Vita intima che può essere considerato il primo tentativo di sistematizzare la filosofia bergsoniana; comincia a collaborare a «Il Regno» di Corradini, liberandolo dalle iniziali referenze ai modelli teorici del nazionalismo straniero (Barrés – Kipling), e ancorandolo invece alla teoria delle élites di Pareto.
   Per Prezzolini, del resto, le teorie di Pareto non valgono esclusivamente sul piano politico, nel quale la lotta di classe – ridotta a caso particolare del meccanismo dell’avvicendarsi delle élites – può essere interpretata come lotta fra ideologi borghesi e demagoghi socialisti: «la storia umana è la storia dell’avvicendarsi di [...] aristocrazie» 25. Le teorie di Pareto, secondo cui funzione dell’ideologia è quella di persuadere all’azione, hanno valore anche sul piano gnoseologico, in quanto inquadrano la razionalità politica come razionalizzazione a posteriori atta alla giustificazione di azioni non del tutto logiche, come descritto proprio da Pareto nel Trattato di sociologia generale. L’impianto teorico paretiano è insomma a sua volta interpretato nel quadro di una prospettiva (politica) che vuole tenere insieme l’epistemologia pragmatista e quella convenzionalista di una serie di filosofi (i soliti Mach, Le Roy, Poincaré, ecc.). Prezzolini vede dunque in Pareto il teorico di una possibile riscossa borghese in quanto lo interpreta come colui che ha permesso di trasporre, dal piano della scienza a quello dell’ideologia politica, la gnoseologia della filosofia bergsoniana, del pragmatismo e dell’empirio-criticismo. E infatti, contro lo stesso Pareto (a cui invia Il linguaggio come causa d’errore), il quale afferma come


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scientificamente inevitabile il cambio di aristocrazia (da quella borghese a quella proletaria), Prezzolini ribadisce la natura finzionale e utilitaria (siamo vicinissimi a Mach) della prospettiva scientifica: «Ella vede nella Teoria delle Aristocrazie una teoria scientifica; io ci vedo invece una giustificazione scientifica d’una mia presente necessità politica» 26. Prezzolini, voglio dire, nell’ottica pragmatista che pone i significati in correlazione alle necessità attuative, concepisce la possibilità della lotta ideologica proprio a partire da tale presupposto di natura relativista e ultra-soggettivista:

Si crede in generale che noi agiamo per i motivi che la ragione ci suggerisce [...], io mi domando se non si potrebbe pensare logicamente che tutti i nostri ragionamenti siano della stessa natura di quelli che l’ipnotizzato a scadenza sa inventare 27.

Ma tale punto, ovviamente, potrà essere capito al meglio esclusivamente da coloro che delle ideologie hanno appunto compreso la natura finzionale, non da quelli (i socialisti fra gli altri) che ancora non hanno capito essere le ideologie il rivestimento razionale a posteriori teso a giustificare intellettualmente gli impulsi psicologici/soggettivisti di partenza. È la via italiana alla “distruzione della ragione”: solo chi ha compreso la natura finzionale delle ideologie avrà davvero la possibilità di lavorare al fine di tramutare in realtà i propri dati psicologici di partenza trasposti in costruzioni ideologiche.
   Gramsci nei Quaderni parla di una «corrente rappresentata dai pragmatisti italiani e da Vilfredo Pareto, tendenza che trovò una certa espressione nel libretto di Prezzolini Il linguaggio come causa d’errore» 28. Ora, la critica a ogni ingenuo oggettivismo (tentativi, li chiama Gramsci, di «mettere le brache al mondo» 29) , a qualsiasi costruzione sistematica tesa a racchiudere il divenire del


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reale in una forma a-dialettica 30, era stata fondante per Gramsci sin dai tempi de «L’Ordine Nuovo», dimostrando della sua cosciente partecipazione a quel dibattito che da circa un ventennio aveva coinvolto (in Italia come all’estero) la stessa possibilità di una forma oggettiva del reale, e, con questa, i meccanismi epistemologici concernenti il rapporto conoscitivo fra soggetto e realtà. Tale critica però non è da identificarsi, in senso machiano, con la destrutturazione epistemologica di qualsiasi prospettiva di natura ideologica, bensì con la comprensione storicista che pone le prospettive oggettivanti all’interno di un processo dialettico teso a superarle, ma non a vanificarle. Il contrasto, a un livello più generale, è qui fra relativismo e materialismo storico 31. Il relativismo, infatti, proclamando l’assenza di qualsiasi verità, non può, per Gramsci, che condurre all’economicismo gretto e alla politica cinica del dato immediato:

La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (com’è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata 32.

Il relativismo scettico può tutt’al più condurre, ed è proprio ciò che accade a Prezzolini, a un superiore distacco intellettuale incapace alla trasformazione degli eventi storici. È ancora il presupposto teorico rappresentato da Guicciardini, analizzato, stavolta, non nel quadro del ruolo intellettuale ma rispetto allo sviluppo delle “filosofie della crisi” novecentesche. Inoltre, ed è un’attestazione


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decisiva, secondo Gramsci «Lo scetticismo è collegato col mate- rialismo volgare e col positivismo» 33. Tale affermazione, tenendo conto del rischio relativista che lo storicismo materialistico può effettivamente comportare, acquista nell’intelaiatura della riflessione gramsciana un’importanza determinante, perché connette la critica alle filosofie di matrice scettico-relativista ai due idoli polemici principali del Gramsci teorico del marxismo: materialismo volgare e positivismo. Avverso a qualsiasi assolutizzazione oggettivante, Gramsci, all’altezza dei Quaderni, sviluppa un sistema di pensiero imperniato sulla critica costante di qualsiasi teoria tesa a fagocitare gli elementi della vita storica. È in primo luogo qui che si innesta la critica della “nuova teologia materialistica” veicolata dal positivismo, ed è sempre qui che, con il tramite di Bergson, la “filosofia della vita” si trasforma effettivamente in un primo grimaldello atto a scardinare «quella meccanica staticità in cui il pensiero chiude il perenne fluire della vita e della coscienza» 34. Ma tale grimaldello si rivela da subito un’arma a doppio taglio. Questo infatti, coinvolgendo nella sua azione tutto l’insieme delle vecchie ideologie, decreta, per Gramsci, la sfiducia totale nella verità: conduce ad uno scetticismo che convoglia la credenza di un inevitabile scollamento fra critica e prassi, perché pone la critica in uno spazio teorico in cui questa può pensarsi separata dalla prassi che pure la determina dialetticamente. La critica che porta le contraddizioni di una fase storica su di un piano generale (antropologico) conduce infatti inevitabilmente alla disillusione, perché interpreta tali contraddizioni come elemento integrante (ineliminabile) dell’esistenza stessa. Il presupposto relativista è dunque, per Gramsci, solo il passo iniziale verso la formazione di una coscienza egemonica che, lavorando all’unisono con la trasformazione strutturale del reale, guida verso un’universalità che riformula la verità (l’oggettività) sul piano, ideologico, del consenso, e su quello, pragmatico, della nuova società. In tale piano, che coincide con l’avvento della società comunista, si ritroveranno superate sia le astratte totalità delle ideologie borghesi,


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quanto l’altrettanto astratta totalità-negativa veicolata dallo scetticismo-relativistico. E proprio nella capacità intellettuale di sviluppare la fase-Riforma (quella fase rifiutata tanto dai “bergsoniani” «Leonardo» e «Lacerba» quanto dalla “tecnica” «Voce») si sviluppa il superamento di ogni irrigidimento a-dialettico, quelli di metafisica e positivismo, ma anche quelli a matrice negativa del cosiddetto irrazionalismo. È insomma proprio la “separazione” intellettuale (l’assenza di una fase-Riforma sviluppata a partire dal meccanismo del “consenso”) a creare tanto le astrazioni del materialismo volgare e del positivismo quanto quelle relativiste.
   Invece:

questa associazione [di intellettuali] non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti danno carattere [tendenzialmente] universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità 35.

La strada dello «storicismo assoluto», che a prima vista parrebbe dover portare sul terreno scivoloso di un’epistemologia inevitabilmente relativista (nella sua critica a ogni istituto oggettivante), porta invece, stante il primato del fare, direttamente sul terreno della politica, e questo perché nel sistema gramsciano una separazione di questi due elementi risulta impensabile. Nella critica progressiva dello «storicismo assoluto» l’etica politica ha già assunto in sé, dialetticamente, la teoria della conoscenza:

Come infatti può darsi intellegibilità del reale al di fuori dell’umanità? Come si può spiegare che una tale concezione, che non è certo una futilità, anche per un filosofo della praxis, oggi, esposta al pubblico, possa solo provocare il riso e lo sberleffo? 36.


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Il peso di questa domanda nel pensiero filosofico gramsciano risulta decisivo. Punto di partenza del procedimento dialettico è proprio il soggettivismo e, nel momento dell’antitesi, la critica di questo avvenuta all’interno del sistema hegeliano e, infine, la relazione fra quest’ultimo e la filosofia della prassi. Se, infatti, nella sua forma speculativa, la concezione soggettivistica «non è altro che un mero romanzo filosofico» 37, nella sua forma storicistica diviene arma critica nei confronti del «senso comune» e del tropo della trascendenza. Trovando la sua forma compiuta all’interno della filosofia della prassi (nella concezione dell’uomo come insieme delle relazioni sociali che lo determinano; nel concetto di egemonia; ecc.), la soggettività si caratterizza però come «storicità soggettiva», vale a dire come «oggettiva umanità», propria di quel gruppo sociale che, viste le contraddizioni dominanti il processo storico, ad esse cerca di porre rimedio nell’azione politica, lottando per la conquista di una posizione egemonica che è anche attacco, tramite prassi, al senso comune medesimo.
   Ecco perché in Gramsci “scetticismo” e “materialismo volgare” (posizionamenti all’apparenza opposti) possono porsi sullo stesso piano: in entrambi risulta assente l’elemento dialettico che, insistendo sulla sfera della prassi, vanifica tanto l’oggettivismo ingenuo di Bucharin quanto quei portati epistemologici del pensiero borghese tesi, ancora ideologicamente, a decretare come impossibile lo spazio della verità. Entrambi infatti fanno antropologico (anti-storico) il limite fissato. Non sarà difficile a questo punto comprendere perché il Quaderno 11, dove Gramsci elabora la sua visione dell’«oggettività», si chiuda proprio su quel necessario movimento dialettico fra il sentire e il comprendere:

L’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. [...] L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato [...], cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e


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giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo [...]; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione 38.

L’uomo conosce realmente quando è inserito in un sistema culturale unificato, vale a dire quando le contraddizioni del processo storico reale sono state annientate dall’azione culturale della filosofia della prassi. Allora le ideologie decadono, allora l’egemonia conquistata dalle classi subalterne diventa essa stessa strumento obsoleto. Alla pseudo-universalità delle ideologie e alla «oggettività egemonica» subentra il compimento del processo autoconoscitivo, che è, per l’appunto, «oggettività reale», cioè realmente intesa dall’intero genere umano.
   Ciò dovrebbe aiutare a spiegarci anche quella particolare posizione assunta da Gramsci non solo in rapporto al pragmatismo euro-americano, ma anche a quella polemica sull’empiriocriticismo (posizionamento rispetto al quale Camilla Sclocco ha ben ricostruito la presenza nell’economia del pensiero gramsciano 39, che vide coinvolti, fra gli altri, Lenin e Bogdanov (e Bordiga in Italia). La critica al “materialismo ingenuo” non significa un andare di Gramsci verso lo scetticismo-convenzionalista machiano 40, Gramsci anzi non solo coglie bene il legame fra pragmatismo ed empiriocriticismo, ma pure comprende entrambi come legati a quella teoria delle «azioni non logiche» sistematizzata da Pareto nel Trattato di sociologia generale (e già in precedenza socializzata da Prezzolini). Materialismo ingenuo e berkeleysmo machiano (ricordo che è proprio Lenin, in Materialismo ed empiriocriticismo a connettere Mach a Berkeley) in realtà sono entrambi per Gramsci forme di pensiero anti-dialettico, dal momento che entrambe tendono a irrigidire


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e modalità del rapporto fra soggetto e realtà. Il primo in senso metafisico-meccanicistico, il secondo trasponendo sul piano di una legge eterna e universale le modalità di un rapporto epistemologico soggetto-realtà che per Gramsci è storico, cioè destinato a mutare in seguito alla lotta politica.

III

La terza linea con cui Gramsci si confronta è quella del moralismo vociano di sinistra, e qui il modello di riferimento e bersaglio polemico è Piero Jahier.
   Nell’agosto del 1954, sulla rivista «Paragone», l’ormai settantenne Piero Jahier pubblica un lungo e durissimo articolo – Contromemorie vociane – che vuole caratterizzarsi come risposta all’interpretazione delle vicende de «La Voce» realizzata l’anno prima da Prezzolini con L’italiano inutile:

Dedico queste contromemorie a Giuliano il Sofista, anziché all’amico Giuseppe Prezzolini, perché mi pare che queste tue Memorie letterarie di un italiano inutile si riferiscano, purtroppo, alla maschera di quel personaggio che sembrava tu avessi relegato per sempre nel ripostiglio degli “studi e capricci” mistico-filosofici, durante il periodo della maturità vociana 41.

L’accusa da parte di Jahier è canonica e si inserisce nel quadro delle interpretazioni della vicenda culturale del primo Novecento date da Gobetti: si tratta di proiettare sul Prezzolini vociano e poi apota l’ombra lunga dell’antico relativismo del «Leonardo». È il 1954, Jahier non dispone soltanto dell’interpretazione della «Voce» data da Gobetti, ma anche di una prospettiva critica – quella dell’intellighenzia democratica – che, alla fine della seconda guerra, è andata a ricercare i propri prodromi nella vicenda culturale che ha preceduto il fascismo, e li ha per l’appunto ritrovati nel progetto di una


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«letteratura attivamente impegnata nella società» 42. sostenuto dalla «Voce», o almeno da une parte di essa:

Amendola vi affermava immediatamente del valore, il valore perenne del messaggio cristiano [...]. Slataper vi affermava, sotto l’influenza del Jahier di “«pars mea cum pauperibus”, la sua volontà di essere non un superuomo, ma un comune uomo dabbene [...] si era convertito all’Amendola di Maine de Biran: “la volontà è il bene”. Salvemini vi portava [...] l’esame dei problemi attuali della vita economica e politica dell’Italia meridionale.

Jahier sovrappone in un unico settore «La Voce» dei cosiddetti “moralisti” e quella più politica impersonata da Salvemini, che vede infatti «tirar avanti la sua [...] battaglia morale tra gli uomini». Al punto opposto dello spettro vengono infatti collocati i compromessi col fascismo Papini e Soffici, vale a dire coloro ai quali, secondo Jahier, i presupposti relativisti e anti-etici avevano permesso l’accodamento:

cipresso maggiore che, al momento opportuno, seppe pur riconoscere, nel creatore dell’Accademia [...] il fatidico veltro dantesco, ed a fianco del creatore antemarcia del manganello, il terzo moschettiere Lemmonio che salì [...] le scale del Fascio, recandovi, armonizzati dall’offerta votiva, la neoclassica “Ambra”, e i futuristici “Chimismi”.

L’apotismo di Prezzolini – nello scritto equiparato a Gino Bianchi (l’ossequioso burocrate creato da Jahier) – viene invece inserito in un’ottica di volgare teleologia di matrice hegelo-crociana che è pur essa, inevitabilmente, un accomodamento allo status quo. Seguendo tale interpretazione Jahier si assume dunque il compito di isolare la sua «Voce» delineandone al contempo l’ideale continuità politico-culturale:


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E ormai la consegna del patrimonio ideale della “Voce” era passata in mani più valide: quelle del giovane milionario Carlo Rosselli [...] e del suo fratello Nello, liberale fino al martirio; quelle di Gobetti che il nostro “Risorgimento senza eroi” aveva provocato all’eroismo mentre l’idealista militante [...] non avvertiva che i “Quaderni della Voce” stavan diventando i “Quaderni del carcere” di Gramsci 43.

Ora, secondo Gramsci, il pensiero di Proudhon, a cui Jahier viene nei Quaderni sistematicamente connesso, corrisponde ad una «falsificazione della dialettica hegeliana», una falsificazione che risulta ascrivibile alla linea dei «movimenti intellettuali italiani («Gioberti, [...], rivoluzione passiva» 44) caratterizzati dal rifiuto dell’intervento prammatico della classe operaia come fattore di progresso storico. È la concezione, scrive sempre Gramsci, che Edgar Quinet battezzò quale «rivoluzione-restaurazione».
   Gramsci pone Proudhon nella linea che, dalla riforma morale condotta dal Protestantesimo, conduce, da un lato, all’esaltazione intellettuale del lavoro artigiano e contadino fatta da Halévy, e dall’altro alla separazione manichea fra ciò che è “spontanea” creazione di popolo e ciò che è di origine “burocratica” che si riscontra nel pensiero di Sorel (sono tutti movimenti e autori posti da Jahier al centro del suo sistema di pensiero: Proudhon, Halevy, Sorel). Quella di Jahier è così per Gramsci una concezione del processo dialettico che rappresenta un giudizio a carattere positivo sulla «rivoluzione passiva», tanto nel suo riservare agli intellettuali il compito di interpreti della lotta politica perché portatori di una superiore capacità di analisi che li candida a un ruolo direttivo (presupposto, come si è visto, interamente vociano), quanto – e soprattutto – nella presupposizione di una finale soluzione etica della lotta medesima, cioè l’approdo a una pacificazione in cui la dialettica economica si risolve in presupposta conciliazione intellettuale e morale della stessa proprio a causa dei presupposti su cui si era originata:


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Si può osservare che un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la «catarsi» dal momento economico al momento etico-politico, sintesi che essi «manipolano» speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi «arbitrariamente» (cioè passionalmente) 45.

La «catarsi dal momento economico al momento etico-politico», ciò che per Gramsci è l’origine stessa del marxismo come capacità di superamento da parte degli individui delle leggi (anche ideologiche) della subordinazione economica, diventa qui la presupposizione di una sintesi che è già stata impostata a priori, perché in tale processo gli intellettuali (e la parte sana della società da loro populisticamente selezionata: il “popolo contadino” di Jahier) finiscono per auto-interpretarsi quali oggetto e soggetto della catarsi; fanno cioè di loro stessi (interpreti di quella parte sana della società) il soggetto e l’oggetto della storia. Gramsci spiega poi come tale movimento, in Italia, si sia originato anche in seguito al disinteressamento degli intellettuali per l’attività produttiva, la cui rappresentazione letteraria è stata ridotta o alla «bestialità» della natura umana nel lavoro (verismo) o alla vita dei contadini come «folclore», come rappresentazione cioè di «sentimenti curiosi e bizzarri» da porsi in contrasto con l’ufficialità dell’Italia moderna. Su questa strada Gramsci incontra come detto Jahier, ma, proprio come nel caso di Papini che pur veniva da tutt’altra strada, inevitabilmente incontra anche Strapaese:

Qualcosa è notevole nell’opera di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per Proudhon), anche di carattere popolare-militare, ma [...] maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere “nazionale-popolare” come programma, ma lo è appunto per programma, [...] dimostra come le scarse tendenze nazionali-popolari nascano forse più che altro da preoccupazioni militari) 46.



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Un’ultima nota (dedicata a due articoli di Giuseppe Raimondi) rinsalda nuovamente il legame fra la prospettiva di Proudhon e quella di Jahier, e non certo in termini positivi:

ha in epigrafe questo motto di Proudhon: “La pauvreté est bonne, et nous devons la considérer come le principe de notre allégresse”. [...] “È nei sobborghi che si sono sempre fatte le rivoluzioni, e il popolo non è da nessuna parte così giovane”. [...] (Molto oleografico, ma abbastanza alla moda del Proudhon deteriore, anche nel tono assiomatico e perentorio). Nell’“Italia Letteraria” del 21 luglio 1929 lo stesso Raimondi parla della sua deferente amicizia per Piero Jahier, e delle loro conversazioni: “... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell’influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell’importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato. [...] Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri (!) interessi”. [...] Questo signor Giuseppe Raimondi era un discreto poseur 47.

Anche il moralismo proudhoniano di Jahier viene dunque condotto nel livello di una sfera d’azione meramente etica che, estranea alla dialettica Rinascimento-Riforma, allestisce per il popolo (la cui parte “sana” non è scelta fra l’altro su base economica, ma su base etica: i piccoli proprietari contadini) la consueta recita a soggetto che finisce in Strapaese (e in brescianesimo). Il posizionamento etico-populista segue dunque come detto lo stesso destino del posizionamento papiniano e sofficiano che lottava per una supremazia “politica” della tradizionale cultura umanistica e dell’intellettuale a quella collegato:

Per quali forme di attività hanno “simpatia” i letterati italiani? Perché l’attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nei libri si tratta di argomento economico, è il momento della “direzione”, del “dominio” [...] di un “eroe” sui produttori che li interessa 48.


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Esiste però un vociano su cui Gramsci non ha alcuna riserva: Angelo Vivante. Vivante è un collaboratore saltuario della «Voce» ed è il responsabile della sezione culturale del Partito socialista di Trieste (la sezione che organizzava liste elettorali bi-nazionali, italiani e slavi e che, a prezzo di un isolamento durissimo, riuscirà a mantenersi compatta nel rifiuto internazionalistico del primo conflitto mondiale). Quello che può essere considerato il massimo esponente dell’austro-marxismo italiano muore suicida nel 1915 e sulla sua morte e sulla sua persona si scrive, come noto, un po’ di tutto: «vergogna di Trieste», «incapace di resistere alla smentita della Storia», ecc. La nota che gli dedica Gramsci è invece di tono assai diverso:

Del Vivante, che fu uomo molto serio e di molto carattere, furono pubblicati opuscoli dell’editrice «Avanti!» per cura di Mussolini [...]. Vedere in quanto il Vivante seguiva l’austro-marxismo sulla quistione nazionale e in quanto se ne distaccava 49.

Gramsci sta qui facendo riferimento a una serie di articoli che – usciti a puntate sull’«Avanti!» e su «Il Lavoratore» di Trieste» – furono da Vivante pubblicati in opuscolo nel 1914 col drammatico titolo Dal covo dei traditori. Non è chiaro se Gramsci abbia potuto leggere gli articoli in questione, ma è assai probabile che abbia potuto vedere il volume Irredentismo adriatico del 1912. In tale volume aveva potuto non solo riscontrare una delle più dettagliate analisi economiche della relazione italo-slava nella Giulia, ma anche certe riflessioni sul rapporto dialettico fra struttura e costruzione ideologica che certo avevano poco a che fare col meccanicismo deterministico della Seconda Internazionale. E concludo con le parole, incredibilmente già quasi gramsciane, di Vivante: «Donde non si vuol per nulla concedere che i fatti del conflitto siano soltanto economici [...]. Altre ideologie si frammischiano agli elementi più strettamente materiali e li turbano e ne vengono a lor volta turbate» 50.


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